Forse, alla notizia della condanna a 2 anni in primo grado del senatore Denis Verdini per corruzione, i nostri lettori si attenderanno il commento che sempre facciamo in questi casi: e cioè che in un paese men che decente il senatore in questione, pur protetto dalla presunzione di non colpevolezza fino a condanna definitiva, si dimetterebbe dal Parlamento e tenterebbe di farsi assolvere in appello e in Cassazione da privato cittadino (assolvere nel merito, si capisce, rinunciando alla prescrizione); e, se non lo facesse sua sponte, verrebbe costretto a farlo dal suo partito (Ala) o almeno dai suoi alleati (il Pd e – non ridete – l’Ncd); e, in ogni caso, d’ora in poi nessuno chiederebbe o accetterebbe più i suoi voti, nè lo sfiorerebbe nemmeno con una canna da pesca. Tutto vero e giusto, per carità. Ma siamo un po’ stufi di ripetere le stesse cose all’infinito, quindi diamole per lette. E proviamo a calarci in quell’orrendo cinismo, che i nostri uomini di mondo chiamano “realismo” e che regola da almeno due decenni la cosiddetta politica in Italia: un governo ci deve pur essere, quel governo per esserci ha bisogno di numeri, quei numeri senza Verdini e le sue truppe raccogliticce non ci sono (almeno al Senato), dunque il fine giustifica i mezzi e ci teniamo Verdini.Ecco, se Renzi andasse in tv e facesse questo discorso, noi non ci faremmo comunque infinocchiare (in democrazia, se il governo non ha i numeri e non vuole comprarseli un tanto al chilo, si vota). Ma almeno gli riconosceremmo la dote della franchezza e del coraggio.
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