"Fuck the audience, the Nobel, the Prize". Dylan non va a Stoccolma – di Massimo Acanfora Torrefranca





Ma di che diavolo vi meravigliate? Che Dylan non vada a Stoccolma? Ma davvero pensate che ciò dimostri per la seconda volta come la commissione si sia proprio sbagliata? Ancora non avete capito che oltre a essere il suo gesto prevedibile, prevedibilissimo, proprio questo stesso gesto faccia parte strutturalmente della poesia dylaniana?Sì, d’accordo, all’inizio c’era una poesia incendiaria, fatta di toni apocalittici, di immagini bibliche, di maledizioni alla profeta Isaia e alla Geremia da far rabbrividire anche un bagnante in costume da bagno a Gibuti (dove la temperatura media è 50 all’ombra – peccato non ci sia ombra, a Gibuti).E pochi accordi, sapienti, ripresi dalle tradizioni popolari, dalle ballate degli hobos che giravano alla ricerca di lavoro e senza meta nell’America della depressione, dai canti del movimento operaio di inizio Novecento, dalle mille tradizioni europee fuse nel crogiolo dei tenements, delle fabbriche, dei campi; e melodie sempre piene di strane svolte improvvise, salti non regolari, accentuati dalla curiosa voce di quel ragazzetto proveniente da un dimenticato porto sui Grandi Laghi, zona di gente stralunata come poi dimostreranno i film di altri due ebrei di quelle parti, i fratelli Cohen.Insomma, c’era all’inizio Bob Dylan, eroe del popolo alternativo che frequenta il Festival di Newport e va alle mille marce americane degli anni ’60, contro la guerra del Vietnam, per i diritti civili, per tutte le cause nobili del mondo.Senonché, il super schivo eroe di quel popolo in fondo molto borghese che aborriva l’amplificazione elettrica e le orchestre e gli arrangiamenti e il rock & roll, sconcertato, nel 1965 vede il nostro presentarsi sul palco a Newport con una band elettrica

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Pubblicato il: 18 Novembre 2016

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