
I cambiamenti relativamente limitati nella frequenza cardiaca nel tempo, anche all’interno del range di normalità, sono associati ad un incremento del rischio di esiti negativi cardiovascolari e non cardiovascolari nella popolazione generale. Questa è la conclusione a cui è giunto uno studio condotto su 15.680 pazienti da Ali Vazir del Brigham and Women’s Hospital di Boston, secondo cui anche nei pazienti comunitari relativamente sani questo particolare biomarcatore, che è sia semplice che essenzialmente gratuito da misurare, rappresenta un fattore predittivi estremamente potente. Questi dati sono in linea con quelli degli studi longitudinali condotti su soggetti senza patologie cardiovascolari note, e con i risultati dello studio TOPCAT, in cui una maggiore frequenza cardiaca a riposo e variazioni temporali nella frequenza cardiaca stessa sono risultati associati ad esiti peggiori nei pazienti con insufficienza cardiaca e frazione di eiezione preservata. E’ stata osservata anche una correlazione quasi lineare fra cambiamenti nella frequenza cardiaca, mortalità complessiva ed insufficienza cardiaca incidente. Per quanto la frequenza cardiaca sia parte integrante dell’esame obiettivo, spesso si tende a non prestarvi una grande attenzione, a meno che essa non ricada enormemente al di fuori dei canoni di normalità. Gli incrementi nella frequenza cardiaca nel tempo potrebbero riflettere un incremento dell’attività del simpatico, mentre una sua riduzione potrebbe riflettere un miglioramento della funzionalità cardiaca, della forma fisica o del tono simpatico
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